martedì 20 novembre 2007

Viaggio nell'ematocrito stellare (e ritorno).

Quasirete, il bel blog della Gazzetta dello Sport , ha accettato di pubblicare una segnalazione di Cardiofonico, un interessante diario di un viaggio dove di solito porta certo doping... ma con metodi naturali. Si tratta del ritorno a quota "umana" di Emilio Previtali dopo un lungo periodo in altissima quota, quando si è ritrovato con un ematocrito a 54. Da leggere per poter riflettere, aiutare a farsi un'opinione, pensare prima di formulare qualunque tipo di opinione (ché giudizio, non lo voglio neanche scrivere, quasi). Tutto qui. Planet 54!


martedì 6 novembre 2007

Tough Guy!



Ciao. Qui sono ritratto in fangoso splendore durante la Tough Guy (sito imperdibile, soprattutto la descrizione dei vari ostacoli) del luglio 2007. Ne ho scritto su Men's Health di novembre, da comprare non foss'altro che per il fantastico servizio fotografico di Sergio Ramazzotti (mica cotiche) che ha condiviso con me fango, sudore e risate. Ecco il testo del pezzo, in versione lunga e senza interventi redazionali (fra parentesi, ho scritto qualcosa sulla Tough Guy anche su Quasirete).

E se mi chiedete se mi è mai venuta in mente una canzone di Muddy Waters durante la Tough Guy la risposta è no, sarebbe stato troppo impegnativo.



INTIMAMENTE BRUTALE

La Tough Guy, fra le prove cui ci si sottopone per mettere alla prova qualcosa di se stessi (cosa lo si scopre strada facendo, nelle migliori), ha fama di essere quella più intimamente brutale.
Si tratta di una corsa campestre molto impegnativa di una dozzina di chilometri con alla fine un percorso di guerra da ripetere due volte. Secondo gli organizzatori, il percorso che più si avvicina per difficoltà ai Killing Fields, questo il rassicurante nome del percorso finale, è quello dove si addestrano i Navy Seals, le truppe élite della Marina USA. Non risultano smentite da oltreoceano.

Dopo averla conclusa, definisco brutale la Tough Guy non tanto per l'impegno fisico richiesto, notevole ma alla portata di una persona fisicamente attiva, ma per la sua capacità di mettere alla frusta ogni tua fibra e ogni tua paura in un tempo e in uno spazio limitato. Immaginate il Raid Gaulois o la Coast to Coast neozelandese concentrate in due o tre ore, meno ancora se avete buone gambe. Immaginate la lenta consumazione della volontà tipica di un triathlon ironman, solo accelerata e ripetuta più volte, magari mentre siete schiacciati fra melma e filo spinato. Immaginate di avere a che fare in modo diretto con almeno una delle vostre paure profonde: acqua, vuoto, ambiente chiuso, altezza, farsi male seriamente mentre pensavi di star lì a divertirti. Aggiungete fango a iosa, acqua gelida, ortiche onnipresenti e avrete un'idea di questa gara per pazzi. Ho corso la versione di fine luglio 2007 e ho rischiato l'ipotermia: non oso pensare a cosa possa essere l'edizione che si corre a gennaio anche se si fa un giro solo dei Killing Fields, edizione che in genere conta più del doppio degli iscritti rispetto a quella estiva!
Una volta partiti (il fumo colorato che avvolge la zona della partenza nasce da candelotti fumogeni sparati ad alzo zero) per mezz'oretta si sta tranquilli: sentieri, ampi spazi, adrenalina che sale tranquilla. poi si entra nel bosco: nelle normali campestri rami e ostacoli naturali vengono rimossi, qui ne vengono aggiunti. Si comincia ad entrare in confidenza con il fango.

Poi arriva lo Slalom (tutti gli ostacoli sono descritti uno per uno con grande English humor nel sito della gara, toughguy.co.uk): circa una dozzina di salite di 150 – 200 metri verticali dentro il bosco e l'erba alta, su e giù senza soluzione di continuità. Un vero massacro a non prenderle con la dovuta calma: molti non recuperano più il fiatone e l'acido lattico fino alla fine.

Il tempo di ricordare ancora il proprio nome e il proprio cognome e cominciano i Killing Fields: primo ostacolo la Tigre, un doppio muro di pali e corde alto 12 metri da scavalcare con attenzione (solo il primo non ci trova del fango su) e in mezzo ai due muri un gradevole passaggio attraverso dei nastri elettrificati, quelli per far rimanere il bestiame di grossa taglia nei recinti. Chi tituba è perduto. Da qui in poi è un crescendo non tanto di difficoltà, pur ben distribuite, ma di momenti di esaltazione ad altri di panico: personalmente mi sono sorpreso nel passare senza problemi attraverso il fieno dato alle fiamme, ma dentro il Vietcong Tunnel, uno stretto tubo di fogna a più segmenti, quando ho visto che l'ultimo tratto era più stretto, a fatica passavo con le spalle ed era in netta salita ho quasi avuto una crisi di nervi.
Anche la capacità di fare squadra è messa duramente ala prova: durante il primo giro si deve guadare il laghetto in mezzo ai Killing Fields con l'ausilio di un ciocco di legno a mo' di salvagente. Durante il secondo, invece, ci si raccoglie in gruppi di dieci e si pagaia tutti insieme praticamente con delle palette da spiaggia sopra uno zatterone fatto con bidoni, corde e assi male inchiodate.
All'inizio si chiacchiera giulivi, a metà un terzo vomita o sta peggio, verso la fine tutti tremano di freddo come foglie: a 200 metri dalla riva sono sceso in acqua per tirare la zattera insieme ad un polacco che nel frattempo era rinvenuto da uno svenimento perché pensavo di far più movimento e perché diversamente... saremmo ancora lì.

Comunque il momento più brutto (penso per molti) è stato quando finito il primo giro cominci ad affrontare il secondo: certo, ora sai a cosa vai incontro, ma saperlo non aiuta per niente.

Il più bello, invece, è stato più personale. Ho ritrovato calore e sorriso schiacciato nella melma alta sotto il passaggio con il filo spinato, al secondo giro. Lì, finalmente in pieno sole dopo una mattina soleggiata solo a sprazzi, ho smesso di tremare come una foglia e mi sono riscaldato: non mi sarei mosso per un quarto d'ora, ma una ragazza (tante, e tutte toste!) dietro di me ha cominciato a darmi pugni sulle suole delle scarpe, ricordandomi a gran voce che quello era il terz'ultimo ostacolo!

Tagliare il traguardo mi ha dato una soddisfazione indefinibile. Ero davvero felice, di aver finito. Ma nello stesso tempo mi sono sentito più ricco dentro per aver condiviso una tale fatica bestiale in modo vero, umano, come in molte competizioni sportive ormai è difficile fare. Intorno, prima e dopo di me, infatti, ho condiviso quelle tre ore e mezzo con altri pazzi, sì, ma non con fanatici della guerra o esaltati della forma fisica. Pazzi che in quattro si portano dietro per tutto il percorso un cannone, per esempio, ostacoli alti compresi. Pazzi che si travestono nei modi più buffi, pazzi che accettano lo spirito di divertimento, mutuo aiuto e beneficienza che animano gli organizzatori e ogni aspetto di questa gara.
La Tough Guy è una sorta di microcosmo (vale davvero la pena di visitare il sito della gara) dove il senso del dovere e del rispetto tipicamente militari si fondono con la goliardia, con la proposta di un misurarsi, senza fronzoli o la necessità di allenamenti lunghi e complessi, con i propri limiti di carattere, prima che fisici. La Tough Guy più che l'endurance mette sotto torchio la stamina, tocca più le caratteristiche di resilienza che quelle di resistenza – pur messe a durissima prova.

Correndola, però, ho notato come il sorriso mai mancasse sul volto di alcuno: solo quando si incocciava nella propria paura profonda le espressioni si rabbuiavano, ma l'incitamento era sollecito, anche se magari quel ponte tibetano con grossi sassi incombenti sulle teste ad ogni oscillazione faceva una certa impressione anche a chi diceva “Come on!”

Prima della partenza, organizzata per gabbie e partecipazioni a edizioni precedenti, qualcuno ha provato a fare il furbo e a passare nella gabbia più avanti. Beh, chi ci ha provato è stato preso da un team dello staff vestito da pirata, accompagnato sopra la collina di partenza ben visibile da tutti e messo alla gogna, testa e e mani bloccate, e fatto partire per ultimo. Dal gruppo lazzi e buuu!, ma nessuno insulto o acrimonia, al massimo scuotimenti di testa invocando i valori della sportività e del rispetto reciproco di chi si cimenta in cotanta prova. Una prova fuori dal tempo, sotto certi aspetti, ma capace di mettere in contatto, con la sua intima brutalità, quello che si è ogni giorno con quello che si è davvero. Yohimbé!